Hai mai sognato una versione migliore di te?
The Substance, diretto da Coralie Fargeat, 30 ottobre 2024

Ogni anno vengono prodotti film che, attraverso il linguaggio dell’autore, cercano di inquadrare una tematica che sia anche lo specchio dei tempi. Non tutte queste pellicole riescono a lasciare un
segno, sia per mancanza di mordente sia perché risultano essere troppo didascaliche. Questo 2024 però ha visto l’uscita del felicissimo The Substance, che secondo chi scrive è un esempio perfetto di come un film possa fare denuncia, e al contempo una critica, alla società odierna.
È un body-horror che mette sotto l’occhio cinico della telecamera il corpo femminile. È diretto da
Coralie Fargeat, regista francese che torna al cinema con il suo secondo lungometraggio, primo in lingua inglese. Lo fa in maniera sferzante, sincera, truculenta, senza porre filtri tra il messaggio che vuole lanciare e lo spettatore seduto in sala. È una pellicola che si inserisce in quel sentiero già tracciato dall’ottimo The Neon Demon di Nicolas Winding Refn che analizzava una tematica simile ma, diversamente da questo, era ambientato nel mondo dell’alta moda.
The Substance è ambientato in una Los Angeles che si divide tra enormi sale di registrazione patinate e sudici edifici in rovina, ma che al loro interno nascondono segreti inimmaginabili.
Protagonista della pellicola è Elisabeth Sparkle (interpretata da Demi Moore) che in passato ha raggiunto l’apice della carriera con la vittoria di un Oscar e la consacrazione con l’ottenimento di una stella sulla prestigiosa Walk of Fame. Elisabeth vede la sua carriera declinare da qualche anno ma mantiene l’entusiasmo di sempre portando avanti un programma di aerobica di cui è la star indiscussa. Almeno fino a che non entra in gioco la forza che nessun essere umano potrà mai battere: il tempo.
Il giorno del suo cinquantesimo compleanno infatti il produttore Harvey (Dennis Quaid) la licenzia con una brutale facilità, mandando in pezzi quella parvenza di carriera che Elisabeth credeva di possedere, per far posto ad un’attrice più giovane ancora da scegliere. Ed è qui che la protagonista viene a sapere della sostanza, un nuovo miracolo della scienza, che farà nascere dal suo stesso corpo, per partenogenesi, una versione migliore, più giovane e più prestante di sé: la bellissima Sue (Margaret Qualley).
Ovviamente non tutto andrà per il verso giusto…

Da questo punto in avanti il film va avanti con un ritmo incalzante, lasciando allo spettatore una storia che si snocciola prima dal punto di vista di Elisabeth, poi da quello di Sue, in un tempo scandito da una tensione e da un senso dell’orrore sempre crescenti.
Il talento di Fargeat sta soprattutto nella macchina da presa che tramuta in immagini il messaggio che vuole inviare con la sceneggiatura. Il film prende come presupposto la visione maschilista e patriarcale del corpo femminile nel mondo dello spettacolo, discorso che si può tranquillamente estendere anche alla società in generale, e lo fa con un’espediente registico a dir poco magistrale. Poco prima della “nascita” della giovane Sue, vediamo Elisabeth in uno stato emotivo distrutto, sola, vulnerabile e nuda di fronte allo specchio del bagno di casa sua. La macchina da presa è insensibile al suo stato d’animo, anzi lo sottolinea quando segue lo sguardo della protagonista su un corpo che non è più quello di un tempo, ma lo fa in maniera delicata. Fargeat non si sofferma in un punto particolare, scorre dal viso alle gambe come acqua su un corpo, lo analizza in maniera attenta, non c’è sessualizzazione, anzi, sembra quasi accarezzare in modo gentile ogni segno del tempo. Al contrario, quando la giovane Sue diventa la star del programma di aerobica, la macchina da presa coincide con la telecamera del programma su cui dietro c’è l’occhio di un uomo. Ed è qui che Fargeat traccia una delle sue critiche: il corpo di Sue diventa diletto di un uomo, dell’Uomo, le sue movenze quasi non interessano, la macchina da presa si sofferma in maniera morbosa sul seno, sui genitali, sul sedere della donna. Insiste e quasi si perde il focus del programma, diventa difficile da guardare perché sembra di star spiando la ragazza nell’intimo piuttosto che seguire una sessione di fitness. Impossibile non pensare a quante riprese simili assistiamo in programmi mandati ad ogni orario.
Nella figura di Harvey invece vediamo l’uomo al comando, simbolo di questo sguardo maschio-centrico, una persona che ha il potere di creare e disfare a suo piacimento, insensibile ai sentimenti di chi lavora per lui. C’è un’inquadratura che è emblema di tutto questo: siamo al ristorante, è il compleanno di Elizabeth ed ella sta venendo licenziata dal produttore. La telecamera si concentra sulla bocca di lui intento a mangiare gamberi mentre getta alle ortiche la carriera della protagonista senza troppi riguardi. Vediamo il particolare delle labbra luride, cibo che fuoriesce tra una parola e l’altra e il senso di disgusto è doppio, sia per la scena in sé sia per ciò che sta avvenendo a livello concettuale: la masticazione, la deumanizzazione di una persona che viene accantonata per via dell’età anagrafica, soltanto perché all’occhio del maschio si preferisce qualcuno di più giovane.
La storia di Elisabeth/Sue è una storia tragica, una storia che innesca nella donna un profondo odio per sé stessa, per ciò che il tempo le sta facendo, è un odio che non nasce da lei, è un odio innaturale, scatenato da fattori esterni, da una società che maciulla e sputa le persone a proprio piacimento, una società serva di numeri e di “audience” che per inseguire il successo ha messo da parte l’umanità. Il rapporto tra Elizabeth e Sue è la drammatizzazione di una lotta intestina di una donna messa da parte da una concezione malata che non può combattere da sola e che quindi finisce per mortificare sé stessa.
È una società, quella illustrata da Coralie Fargeat, che ferisce, taglia, scava all’interno della persona fino a renderla un involucro vuoto. Una società che impone ritmi e prestazioni sempre più elevate, ma fino a che punto sostenibili? Chi scrive non ha una risposta ad un quesito tanto grande e probabilmente non ce l’ha nemmeno la regista. Ma il film è un quadro di precisione chirurgica di ciò che viviamo ogni giorno ed è un film che invita a riflettere sugli standard che abbiamo imposto in quanto comunità e in quanto esseri umani.
In conclusione noi di Alare di Luana Cotena abbiamo scelto di parlare di questo film proprio per tutti questi messaggi che esso vuole inviarci, perché è una pellicola che, sì, mette in luce le tante storture della società in cui viviamo, ma dall’altra parte,
attraverso la riflessione, ci invita a compiere un percorso di accettazione di noi, di rispettare il nostro corpo in continuo mutamento e di quanto valga la nostra anima.
Scritto da: Angelo Lubrano