L’atmosfera virtuale ci rende nostalgici di un tempo in cui eravamo soliti guardarci e non videochiamarci? 

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Viviamo in un’epoca di trasformazione digitale, trasformazione del sociale, trasformazione del volere in dovere. Tutto ciò che ci circonda si sta trasformando assieme ai nostri bisogni primari e a volte il tempo per fermarci e chiederci dove stiamo andando, chi siamo e come ci sentiamo, sfugge dall’essere sfruttato per farci rimanere tali domande impresse nella mente.  Ce le dimentichiamo, non saltiamo a gambe tese per afferrarle e individuare una risposta, restiamo inermi.

Tuttavia, credo che riservando un momento per permettere al fare di riconciliarsi con il dire, si riesca ad ascoltare l’interiorità, spronandola a fuoriuscire dal guscio, alla pari dei molluschi che escono dalle conchiglie per addentrarsi nel mare delle proprie sensazioni.  

Miriam Lombardi, Mariarosa D’Alessandro e Angelo Lubrano, le voci di Alare di Luana Cotena, ci hanno condotti in un mondo di attitudini più o meno salubri, riscontate dal cimentarsi nello smartworking post pandemia. Nessuno prima d’ora gli aveva chiesto di mettere a nudo l’emotività elaboratasi in una fase di sradicamento delle loro vite dall’ordinario. Qui vogliamo ricordare che le debolezze se amalgamate con una buona dose di consapevolezza, si alleano per far sedimentare dentro ogni persona un seme di soddisfazione personale in un incontro valoriale fra umani che si raccontano e altri che li ascoltano. Ne deriva un’inedita apertura mentale ricca di sottili sfaccettature.

Il tassello mancante di un castello di solide priorità non è l’accettazione dell’aumento delle ore lavorative, bensì l’occuparsi di ciò che si è nel momento presente, evitando di accumulare sensi di colpa e macerie di un modus operandi poco accogliente dei suoi bisogni. Nel non porsi dei confini in ambito professionale si rischia di espandere il tempo da destinare al lavoro oltre il previsto, a causa di una mancata presa di posizione che temiamo erroneamente ci limiti, ma attenzione, non ci procurerebbe malessere. Tutti e tutte dovremmo imparare a darci una possibilità di conoscerci nel profondo, cercando un equilibrio che ci accompagni nel passaggio dal serio al dilettevole, senza associare il distacco al fallimento o a una capacità labile di sapere organizzare le giornate su misura dei nostri movimenti interiori. 

Nelle prossime righe, arricchiamoci sulla base di confidenze autentiche  

Nella tua occupazione lavorativa quante ore passi davanti lo schermo? 

Credit: Miriam Lombardo

Miriam:
Faccio parte del “Gruppo le Due Torri”, un’agenzia di ristorazione e catering Campana, opero nel settore della comunicazione marketing sia dei social che della grafica per volantini, promo, cartelloni o packaging. Mi divido fra lo smart e la logistica da calibrare in loco, ossia creare dei video del servizio offerto con protagonista lo staff che lavora nei locali o coordinare shooting ed eventi per lo Stadio Olimpico di Roma e per lo Stadio Maradona di Napoli. In smartworking, impiego massimo quindici ore di seguito ma tendenzialmente sei-sette. Adopero molto Task, utile per il promemoria delle attività al di là delle emergenze dell’ultimo minuto che cerco di amministrare. Mi arrivano le e-

Mariarosa:
Vivo a Milano e l’anno scorso lavoravo nella moda, spesso in giro per l’Italia. Perdevo tempo nel viaggiare per tornare a casa, la sera diventavano le otto, le nove, se non le dieci. Al rientro cucinavo, mangiavo e subito dormivo. La mia vita era diventata un continuo di quella lavorativa.
Invece, da sei mesi sono responsabile marketing e comunicazione di una multinazionale di rilievo sull’IA in modalità Smart, stando 9-10 ore al giorno al computer. Ovviamente l’equilibrio fra la vita privata e il lavoro si è modificato. Mi si chiede di conseguire gli obiettivi dei progetti in questione, e non di rimanere in delle tempistiche prefissate. Antecedentemente i miei capi non mi concedevano di concludere la giornata se terminavo le attività definite in anticipo; ero costretta a rimanere online. 

Credit: Mariarosa D’Alessandro


Angelo:

Alle spalle ho l’esperienza di un anno nella segreteria della scuola paritaria “San Paolo”, dove mi misi alla prova nel fronteggiare lo smartworking. Passavo allo schermo quattro-cinque ore, non un eccesso. All’inizio ho sperimentato concretamente la stanchezza, non ero in grado di rimanere motivato nel sostenere un palpabile prolungamento del tempo davanti al pc oltre i miei standard. Fortunatamente pian piano si sono integrate delle pause ogni ora e mezza-due.  

L’abbondante sedentarietà consente al tuo fisico di ricentrarti su te stesso/a? 

Miriam:
In smartworking stavo malissimo venendo da undici anni nella ristorazione in sala e facendo anche l’addetta all’accoglienza. Abituata a essere la prima persona che il cliente vedeva entrando, parlavo e stavo in piedi quotidianamente. A casa, mi sentivo isolata, non sapevo costruirmi i miei spazi. Aperti gli occhi mi mettevo al computer e lo chiudevo mentre il sole tramontava. Ho voluto ardentemente rivalutare l’umore negativo, intraprendendo un percorso con una psicologa. Il lavoro su me stessa si è rivelato indispensabile. E poi mi ha aiutata la mia cagnolina, Partenope, la presi passata una settimana di lavoro agile, lo desideravo da tanto, ma sostenendo orari disumani sarebbe stato faticoso. Di conseguenza, la mia routine è cambiata radicalmente svegliandomi presto per portarla fuori. Successivamente ho avuto l’esigenza di migliorare il mio aspetto fisico grazie all’allenamento, alla passione per la salsa e la bachata e alla pratica dello yoga.  

Mariarosa: 
Stare per conto mio a lungo è meno stressante ma alienante. Infatti, mi manca un team di riferimento con cui scambiare opinioni, fare una battuta, staccare, bere semplicemente un caffè. Inoltre, a casa durante la pausa pranzo consumo il pasto e lavoro contemporaneamente, non mi do dei confini e non riesco a sradicarmi perché l’ambiente casalingo è comunque confortevole. Secondo me l’ideale sarebbe recarsi una-due volte alla settimana in ufficio e il resto gestirti tu. 

Angelo:
A dir la verità affermo che mi sentivo meglio a lavorare fra le mura scolastiche. Rimanere a casa mi sembrava decisamente straniante, come se mi trovassi in una bolla creata apposta per sintonizzarmi con delle voci esterne, dialogare non era appagante. Da questo punto di vista apprezzavo di più instaurare dei legami in presenza e uscire dall’immobilita comunicativa, parlare naturalmente, a quattrocchi. Ragionevolmente arrivavo alla fine delle cinque ore abbastanza riposato affinché riuscissi ad avere voglia di proseguire con iniziative impegnative quali lo studio, o ludiche con le uscite. Mi dedicavo a me.  

Lavorando da casa, nel metterti in contatto con altre persone, risenti di benefici nel comunicare a distanza o provi distacco dalla realtà?

Credit: Mariarosa D’Alessandro

Miriam: 
I benefici li assorbo sì e no, considerando che ho l’attitudine a lavorare in gruppo, però al contempo sono diligente nel lavorare da sola, specialmente nella stesura del calendario editoriale. In sede non riuscivo a focalizzare l’attenzione sui miei compiti perché con la gente si chiacchierava, si metteva la musica, si ambiva al fumarsi una sigaretta. Ugualmente, se ho degli shooting e devo presidiare in mezzo agli altri, i giorni prima evito di frequentare i locali rumorosi. Preservare la mia energia per coordinare e motivare i ragazzi a esprimere la bellezza del mestiere che hanno scelto, richiede uno sforzo fisico e psicologico notevole.   

Mariarosa:
Con le altre persone mi relaziono raramente, ci parliamo dietro una videocamera su Teams. È evidente che il distacco dalla realtà persiste ma la piacevolezza delle relazioni dipende da realtà a realtà e con chi hai a che fare. Per esempio, qui nella redazione di Alare c’è più unione, percepisco una complicità importante nella community, nonostante la distanza si avverte meno la solitudine, ed è gratificante. 


Angelo:

Il distacco è evidente. La scuola mi concedeva il privilegio di stare in compagnia, mantenendo il contatto faccia a faccia con i colleghi coetanei. Da casa non potevo interfacciarmi con le nuove generazioni per carpire i cambiamenti che si stanno attuando rispetto ai tempi in cui io frequentavo ancora il liceo, immedesimandomi nello spirito di coloro che lo frequentano oggi. Ho notato delle differenze enormi rispetto alla maturità generale, vedo i ragazzi e le ragazze più “adulti e adulte” nel vestiario, nelle movenze e per come si rapportano tra loro. Noi eravamo più infantili e ingenui, eppure non in termini negativi. Chiaramente non essendo lì non lo avrei mai saputo.  

Credi di aver imparato qualcosa dallo smartworking che ti ha stupita/o? 

Miriam:
Per me lo smartworking non è totale, per cui ormai so quando devo rivolgere la mia attenzione ad altro. La vecchia Miriam necessitava di essere sempre connessa e disponibile ma mi provocava angoscia. Oggi, alzandomi dal letto mi rifiuto di prendere il telefono, soltanto dopo la colazione accendo gli schermi. Non mi sento a mio agio nel ricevere troppe informazioni contemporaneamente, ho disattivato le notifiche delle app social al di fuori degli affetti più cari, gli unici ad avere la possibilità di contattarmi h24. L’ansia è diminuita e posso dedicarmi al mio privato. 

Mariarosa:
Sono full smart in una condizione reiterata di affanno sociale, seppur la comodità del mezzo elettronico sia elevata; quindi, riaffiorano sia dei vantaggi istruttivi che delle preoccupazioni. Se prima la mattina del weekend mi serviva per pulire casa o per fare la spesa, ora svolgo le mansioni domestiche in settimana e mi godo il sabato e la domenica. L’insegnamento più grande è che la vita privata non si può lasciare indietro, sentirsi fuori luogo se si fa qualcosa per sé è sconfortante, inammissibile.

Angelo:
Ho ingranato nell’organizzare il tempo a mia disposizione malgrado le inevitabili distrazioni presenti all’interno dell’abitazione, magari la televisione in sottofondo o le persone che parlano negli angoli delle stanze accanto, interferendo a tua insaputa. Lavorando assiduamente ho scoperto la propensione nel destreggiarmi in fasce orarie estese. 

Le difficoltà pervenute dal lavorare da soli conducono a una metabolizzazione degli effetti collaterali subiti dal rimanere in assenza di stimoli. Se la percezione dell’ego è un buon pretesto per raschiare il fondo delle insicurezze facendoci assaggiare il sapore dell’autoaffermazione, la cooperatività ci agevola nell’identificarci in entità uniche somiglianti o differenti dalle altre, le quali sempre ritornano a esistere singolarmente mediante il pensiero, che alcun individuo può rubarci o modellare a sua scelta.  

Catapultarsi nel virtuale è una consuetudine che si discosta dal potersi definire oggettivamente anti-sociale. A riguardo, si evidenzia un dualismo di prospettive; disfattiste o generatrici di siinergia. La vicinanza fra interlocutori è inevitabilmente giovevole. Talvolta per non sprofondare in dei vuoti emotivi, la materia grigia che sorregge le menti ha desiderio di condividere storie di esperienze vissute con chi ci sta lontano.

Assistendo alla comune ammissione di disagio nell’aver toccato il fondo, ne vogliamo cogliere un auspicio rassicurante: ri-nascere trasmettendo il messaggio dell’anima che può guarire, staccandosi momentaneamente dalle fonti di pressione audiovisiva.  

L’ipotesi di arredare gli spazi di stanze ideali e reali servendosi del digitale come mezzo generatore di coinvolgimento, giunge da me a te che stai leggendo o si ferma nell’etere?

Scritto da: Giulia Pernaselci

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