Il nuovo anno sta procedendo. Verso la fine di un anno sono solita stilare la lista dei buoni propositi da attuare nel prossimo. Ma siamo capaci di pensare al perché lo facciamo? Io ho il mio perché. Perché per me la fine di un anno è la conclusione di un insieme di tappe che mi hanno regalato soddisfazioni, delusioni e altre sfumature più o meno dense di momenti di vita e ho un rapporto spesso burrascoso con il termine delle cose, o per meglio dire con l’asso di tempo che mi separa dai nuovi inizi. Usare il verbo regalare non è sbagliato, è un regalo persino la sofferenza. Quando mi ritrovo in uno spazio delimitato da una massa ingarbugliata di pensieri discontinui, so che devo reagire, trovando dentro me un motivo di rottura.
La mia soluzione ha il valore di una verità, che altro non è che un rifugio e uno specchio nitido, privo di aloni di confusione, ed è la scrittura, anche dei fatidici propositi. Mentre scrivo mi si ripropone lo stesso identico sospiro di sollievo, lo riconosco, è sempre inibitorio. Da fuori non si vede e non si può nemmeno sentire, nessuno dei cinque sensi può percepirlo concretamente. È qualcosa che va oltre. Scrivere mi permette di fare chiarezza mettendo nero su bianco le idee che non riescono a ordinarsi nella mia testa, se le scrivo si mettono in fila, fungendo da motore frenetico che mi spinge a focalizzarmi sui miei bisogni fondamentali.
Mi affaccio con riguardo alla finestra che si apre sulla teoria proposta dallo psicologo statunitense Abraham Maslow nel 900. Lo studioso propose una suddivisione dei bisogni dell’individuo per importanza, rappresentandoli schematicamente in una piramide. Posti sulla punta primeggiano i bisogni fisiologici, indispensabili per la sopravvivenza, a seguire la sicurezza e l’annessa stabilità affettiva e finanziaria, poi l’appartenenza, che include i rapporti di affetto, dopodiché la stima di sé e infine l’autorealizzazione, raggiungibile occupando un ruolo sociale in base alle proprie competenze, lavorative e non. A prescindere da quale sia la personale gerarchia di queste macrocategorie, rimane vero che se l’appagamento di uno dei bisogni viene meno, l’organismo ne risente inevitabilmente ed è inefficace rafforzare gli altri colmando il più flebile, poiché mettendolo da parte lo si dimentica inconsapevolmente. Così idealizzando la fine delle cose come un muro, prendo consapevolezza che il muro è una costruzione mentale, farlo è difficile, lo accetto mettendomi in allerta.
Scrivo il seguente proposito: il seme che pianto oggi non mi mostrerà i suoi germogli subito ma diventerà una piantina domani. Se non sarà domani mi ripeterò che andrà bene anche il giorno successivo.
Esplorando le mie paure mi capita di porre le parole degli altri sotto una lente di ingrandimento virtuale, per misurare metaforicamente il peso che hanno sul mondo e su di me. Sempre nella scrittura ho colto l’affanno inquieto di un autore contemporaneo. C’è una poesia dello scrittore neorealista Alberto Moravia, vissuto all’epoca del dopoguerra, terreno di dure condizioni e di lotta delle masse, in cui egli all’ombra dell’inquietudine sembra essersi bloccato in una via di non ritorno, assumendola come definitiva. La poesia si intitola “Il Palombaro” e si allinea perfettamente con le sensazioni sfavorevoli che si provano muovendo dei passi scoordinati da qualsiasi tipo di previsione, e sono più dei salti nel vuoto. Il poeta asserisce testualmente:
“Ho visto il fondo delle cose e poi sono tornato in superficie e adesso a che mi serve aver visto il fondo delle cose?”.
– Alberto Moravia, Il Palombaro
L’assenza di punteggiatura della composizione letteraria rappresenta visivamente il distacco frettoloso dal proprio sé che può carburare in cambiamento, è un no secco, un rifiuto dell’attimo che fa volgere al risanabile.
Se oggi potessi dare una risposta a Moravia gli direi inflessibile che avere una chiara immagine del negativo serve per interagire interiormente con quelli che chiamiamo “limiti” ma che sono in realtà tali a partire dai punti di vista. Probabilmente il coevo cantautore Fabrizio De André sarebbe stato d’accordo con me, sentendolo cantare in Via del Campo
“[…] dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
– Fabrizio De André, Via Del Campo (1967)
Un brano senza ritornello, che non si ripete, sa di voler arrivare con rapidità alla svolta decisiva, simile a quella che chiude questo cerchio, atto alla geolocalizzazione di ogni mancata presa di coscienza.
Ciò che sfugge al controllo macchinoso che ci poniamo come obiettivo ultimo delle nostre giornate, ha il potere di essere il motore della risolubilità, la confusione può quindi trasformarsi, carburando a lungo andare. Nel frattempo decido di non farmi prendere dalla fretta, per evitare di discostarmi dalle mie mete, ma senza abusare della pazienza, rimanendo con lo sguardo volto al di là dell’istante presente.
Per fortuna sto imparando ad ascoltarmi.
Scritto da: Giulia Pernaselci